A tavola con la CE   La CE sta cambiando il nostro modo di mangiare. Nella legislazione comunitaria vi sono diversi vuoti normativi che non tutelano i consumatori e cioè:

  • le norme sull’etichettatura alimentare prevedono che gli oli vegetali siano designati senza la specificazione del tipo, mentre vi sono oli ricchissimi di acidi grassi saturi dannosi per la salute (di cocco, di palma, di palmisti, eccetera). Il consumatore è portato invece a ritenere che tutti gli oli vegetali siano benefici. Lo stesso vale per la designazione “grassi vegetali”;
  • tranne nei casi in cui è obbligatoria l’etichetta nutrizionale, non c’è alcuna norma che prescriva l’obbligo di indicare il contenuto in grasso nei prodotti alimentari;
  • la disciplina della “provenienza” o Paese d’origine del prodotto alimentare è presso che inesistente;
  • non c’è una norma comunitaria sui limiti delle cariche microbiche negli alimenti;
  • gli oli non adatti per la frittura e, quindi, nocivi, perché liberano facilmente sostanze tossiche, non devono riportare alcuna avvertenza. Nessuna norma prevede esplicitamente il divieto di reimpiego dell’olio di frittura nella ristorazione;
  • non si è mai venuti a capo in sede comunitaria della introduzione di un “tracciante” nella polvere di latte per uso zootecnico al fine di scoraggiare le frodi casearie. Tuttavia sarebbe ingiusto dire che le norme comunitarie vanno sempre nel senso del peggioramento qualitativo. Bisogna analizzare caso per caso, tenendo presente che, il più delle volte, quando c’è stato un peggioramento, le norme hanno dato al consumatore la possibilità di capire la qualità attraverso l’etichettatura.

Ortofrutticoli. Vari Regolamenti hanno stabilito le “categorie di qualità” (che sono presso che ignorate in Italia, tranne nei supermercati) e che sono “extra” (la migliore), “prima” e “seconda“. Sono stati anche fissati dei requisiti minimi, di cui si riportano alcuni esempi. Meloni. Dipende dall'”indice rifrattometrico”, cioè dal contenuto zuccherino, che nei buoni meloni non dovrebbe essere inferiore al 12 per cento. La CE, con il Regolamento n. 1093/1997, ha stabilito un limite minimo dell’8 per cento, che non è soddisfacente, ma almeno mette una barriera ai meloni molto insipidi. Banane. Secondo il Regolamento n. 2898/1995, devono essere lunghe almeno 14 centimetri e larghe 27 millimetri. Vietate le banane più corte, ma in verità vi sono alcune piccole banane africane che sono più saporite di quelle lunghe dell’America centrale. Carciofi. Stranamente la CE si è accanita contro i gambi, che secondo il Regolamento n. 963/1998 non devono essere più lunghi di 10 centimetri, tranne per i carciofi presentati in mazzi legati. Uova. In base al Regolamento n. 1511/1996, le uova devono riportare in etichetta le stesse misure dei vestiti: “XL” (grandissime, da 73 grammi in su), “L” (grandi, fra 63 e 73 grammi), “M” (medie, da 53 a 63 grammi) ed “S” (meno di 53 grammi). Prima la classificazione in peso era in numeri che andavano da zero a 7, poco comprensibili per i consumatori. Si deve anche alla CE se l’uovo fresco è riconoscibile. Pesce. Anche nel pesce, come nelle uova, la categoria “extra” indica che è freschissimo. Lo ha disposto il Regolamento CE n. 2406/1996 che ha reso obbligatoria l’etichettatura di freschezza, suddividendo il pesce nelle categorie “extra“, “A” e “B“. Il Regolamento, che in Italia è praticamente ignorato anche perché non ci sono sanzioni, ha stabilito che “la categoria di freschezza deve essere indicata in caratteri leggibili e indelebili di un’altezza minima di 5 centimetri, su etichette apposte sulle partite“. Fanno eccezione le piccole partite di pesce vendute dal pescatore direttamente al consumatore. Precedentemente, la Direttiva CE n. 71/1995 aveva stabilito che sul pesce confezionato deve essere indicata la sigla del Paese di provenienza. Pasta e pane. Uniformandosi a una sentenza della Corte di giustizia europea del 14 luglio 1988, dopo 10 anni, con la legge n. 128/1998, l’Italia ha dovuto dare via libera all’importazione dagli altri Paesi europei di pasta fatta con grano tenero, anche se addizionata con additivi e coloranti (vietati in Italia). Nella pentola si riconosce perché fa un’acqua molto torbida a causa dell’amido che si disperde facilmente, nel piatto perché si incolla, alla vista perché è opaca, al gusto perché sa molto di farina e in etichetta perché, appunto, c’è scritto “farina” anziché “semola“, che contraddistingue la tradizionale pasta italiana di grano duro. Stesso discorso per il pane, poiché la medesima norma ha permesso l’importazione di quello fatto negli altri Paesi europei senza rispettare i più severi requisiti della legge italiana, come il tenore massimo di umidità e la presenza di additivi e coloranti. Cioccolato. E’ stata emanata una Direttiva UE che autorizza l’impiego di grassi vegetali nel cioccolato fino al 5 per cento, in aggiunta al burro di cacao (il grasso naturale del cacao). Quelli che saranno impiegati nel cioccolato sono i famigerati oli tropicali di cocco, di palma, di palmisti (i semi della palma), oppure il burro di karitè o il burro di illipe, altri grassi ricavati sempre da piante tropicali, i quali hanno un alto contenuto di acidi grassi saturi dannosi per le artiere, in particolare acido laurico, miristico e palmitico. Il loro effetto, dimostrato scientificamente, è quello di elevare il tasso di colesterolo “cattivo” e già si trovano in altri prodotti di panetteria, biscotteria, pasticceria, eccetera, per due semplici motivi: hanno un buon sapore dolce e costano poco. Acqua. Grazie alla Direttiva n. 83/1998, sarà possibile imbottigliare e vendere ai consumatori l’acqua potabile erogata per i rubinetti domestici, come se fosse acqua minerale: in effetti lo è, ma si chiamerà “acqua di sorgente”. Transgenici. Qui la faccenda si complica. Con il Regolamento n. 1139/1998, sono stati ammessi soia e mais transgenici, con l’obbligo di un’etichettatura particolare (“contiene derivati da granturco -o soia- geneticamente modificato“) soltanto se c’è la presenza di DNA modificato geneticamente o di proteine modificate geneticamente. Quindi, al consumatore è permesso non far sapere niente.