L’agricoltura biologica se vista come modello di sviluppo globale (soprattutto da alcuni movimenti come Slow Food o attivisti come Vandana Shiva), è stata al centro di dibattiti e critiche.

In particolare sono due le principali obiezioni sollevate: la sua non sostenibilità su larga scala e la scarsa scientificità di talune sue pratiche legate all’assioma naturale=buono. Se è vero che il divieto di usare la maggior parte di prodotti agrochimici di sintesi riduce quella parte dell’impatto ambientale agricolo legata all’immissione di molecole tossiche nell’ambiente, è altresì vero che la produzione biologica ha di media rese inferiori del 20-45 per cento rispetto a quella convenzionale e pertanto, per produrre le medesime quantità, sarebbe necessario mettere a coltura il 25-64 per cento di terre in più.

Questo però porterebbe alla distruzione di habitat naturali importanti per la biodiversità oltre che ad aggravare il problema della fame. Vi è inoltre la credenza che le pratiche di gestione biologiche consentano di ridurre la percolazione in falda di azoto o che aiutino alla sviluppo delle comunità microbiche del suolo; essa però non è del tutto accurata esistendo a riguardo dati controversi.

In tema di sostenibilità è stato osservato inoltre che l’agricoltura biologica è in grado di avvicinarsi, per molte colture, ai risultati di quella convenzionale solo se accoppiata ad una fertilizzazione del terreno.A causa della scarsità di animali allevati in modo biologico è attualmente consentito l’utilizzo anche di fertilizzanti certificati come biologici che di fatto però derivano da produzioni convenzionali.

Questa pratica rende le rese dell’agricoltura biologica dipendenti dalla presenza di una forte agricoltura convenzionale, con risultati che non si potrebbero mantenere qualora l’agricoltura biologica, da fenomeno di nicchia, dovesse trasformarsi in un fenomeno globale.