Da quando è diventato sapiens, l’uomo ha sempre cercato di interrogarsi sul futuro per intuire, o meglio per decifrare in anticipo cosa gli sarebbe accaduto nel tempo a venire. Un bisogno alimentato dall’incertezza, dalla paura e dalla speranza: mix di sentimenti da cui è derivata perfino una scienza (la futurologia) e, agli inizi del XX secolo, una corrente chiamata futurismo, declinata in differenti forme artistiche.
Il Manifesto del movimento futurista venne elaborato la sera del 19 febbraio 1909 in un ristorante di Parigi.
Perché parliamo del futurismo fondato dal poeta italiano Filippo Tommaso Martinetti? Perché i futuristi esplorarono ogni forma espressiva, dalla pittura alla scultura, dalla poesia al teatro, ma non trascurarono neppure la musica, l’architettura, la danza, la fotografia, il nascente cinema e persino la gastronomia.
Ma cosa centrava il Manifesto futurista con la tavola? Cosa c’era da rivoluzionare nel fabbisogno alimentare italiano che, per la varietà delle materie prime e l’abilità di oscuri cucinieri, stava per diventare un’arte?
Martinetti fu sicuramente geniale nel tracciare le rotte della nuova avanguardia nelle più differenti espressioni artistiche, ma in fatto di gastronomia prese una cantonata per così dire storica. State a sentire…
Precursore della cucina futurista è il cuoco francese Jules Maincave che nel 1914, annoiato dai “metodi tradizionali delle mescolanze”, a suo dire “monotoni sino alla stupidità”, si ripropone di “avvicinare elementi separati da prevenzioni senza serio fondamento”. Queste le sue specialità della cucina futurista: filetto di montone e salsa di gamberi, banana e groviera, aringa e gelatina di fragola.
E fin qui uno poteva alzarsi dalla tavola, saldare il conto con il ristorante e con la cucina futurista e andarsene. Ma nel gennaio 1931 Marinetti si spinge oltre e pubblica, sulla rivista “Comoedia”, il Manifesto della cucina futurista secondo il quale bisognava eliminare la pastasciutta.
Scrive Martinetti “…la pastasciutta, per quanto gradita al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d’altra parte patriottico favorire in sostituzione del riso”.
Oltre all’eliminazione della pastasciutta Martinetti predica l’abolizione della forchetta e del coltello e auspica la creazione di “bocconi simultaneisti e cangianti”, invita i chimici ad inventare nuovi sapori ed incoraggia l’accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi.
Povero Martinetti, che cantonata! Come poteva immaginare questo profeta delle rivoluzioni epocali che la pastasciutta, da lui denigrata, sarebbe diventata un piatto globale, una delle specialità gastronomiche del Made in Italy più diffusa al mondo, in grado di riempire lo stomaco, soddisfare il palato e riunire in lunghe tavolate di persone allegre e gioviali?
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